CASA DI ALDA VIO A COMO

CASA DI ALDA VIO A COMO

CASA DI ALDA VIO A COMO

© Giuseppe Maresca, fotografo – Questa immagine è protetta da copyright

La casa di Alda Vio fu una delle abitazioni private che divenne nei mesi della Repubblica di Salò e dell’occupazione nazista un rifugio sicuro, luogo di passaggio per tutti coloro che rischiavano la cattura e la deportazione nei campi di concentramento. Con Alda furono coinvolte nella rete di Resistenza civile altre donne, anche l’amica, collega musicista e insegnante Lydia Galli, con la quale aveva fondato l’Accademia musicale “M. E. Bossi” di Como. A partire dai giorni che seguirono l’entrata delle forze naziste a Como il 12 settembre 1943 fino all’aprile 1945, Alda Vio e Lydia Galli ospitarono nella propria casa molti ebrei, perseguitati politici, alleati e militari in fuga. Perno di tutta l’organizzazione fu Ginevra Bedetti Masciadri, che si occupava di coordinare arrivi e partenze, provvedendo alla consegna di documenti falsi e procurando i contatti utili al passaggio del confine italo-svizzero.
Secondo quanto riportato dalla stessa Alda Vio nella scheda predisposta dall’Ufficio Patrioti dell’Allied Military Government nell’estate del 1945, la sua casa, civico 1 di via Monti a Como, fu anche uno dei luoghi in cui si riunì il comando della XVI Divisione Giustizia e Libertà, divenendo base partigiana per il deposito di armi, vestiario, provviste, documenti attestanti le attività delle formazioni GL e stampe clandestine da inviare alle bande partigiane della provincia comasca.

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Alda teneva anche i collegamenti con Milano e le staffette di altre brigate partigiane.
Di lei non è rimasta altra testimonianza. Chi le fu vicino in quegli anni avrebbe parlato di Alda Vio come di una donna schiva, avulsa all’esibizione di meriti, pur guadagnati, capace di una generosità disinteressata, che non richiamava meriti speciali. Rimangono però i legami con le donne e gli uomini della Resistenza, le amicizie femminili senza le quali Alda, e forse nessuna di loro, avrebbe agito da protagonista.

Silvia Maresca

Localizzazione

Località: Como
Indirizzo: via Maurizio Monti, 1
Comune: Como
Provincia: Como (CO)
Regione: Lombardia
Coordinate geografiche: Latitudine 45.81187 – Longitudine 9.08690

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Tag:

FONTI

Bibliografia
R. Cairoli, Nessuno mi ha fermata. Antifascismo e Resistenza nell’esperienza delle donne del Comasco, 1922-1945, Como, NodoLibri, 2005

 

 

 

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ALTRE INFORMAZIONI

Data: Resistenza

Cognome Nome: Vio Alda

Formazioni d’appartenenza: Alda Vio collaborò con il Comitato di Liberazione Nazionale di Como e la XVIª Divisione partigiana di Giustizia e Libertà

Data opera: non determinabile

Autore: non conosciuto

Note: Si segnala che lo stabile attuale in Via Maurizio Monti 1 non corrisponde all’edificio qui descritto. L’immagine dell’articolo riprende la targa storica della via posta di fronte allo stesso. Ad oggi non si segnala alcuna targa commemorativa

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CASA DEL PASTORE VALDESE CARLO LUPO A COMO

CASA DEL PASTORE VALDESE CARLO LUPO A COMO

CASA DEL PASTORE VALDESE CARLO LUPO A COMO

© Giuseppe Maresca, fotografo – Questa immagine è protetta da copyright

Nel 1937 la Tavola valdese assegnò al pastore Carlo Lupo il nuovo ministero nella città di Como. Aveva appena lasciato la comunità valdese di Sampierdarena, il quartiere genovese dei portuali e degli operai dell’acciaieria Ansaldo, cui sarebbe sempre rimasto legato. Dunque giunse nel capoluogo lariano, al civico 17 di via Tommaso Grossi, dove sarebbe rimasto circa undici anni. Con lui Lily Malan, moglie e compagna di una vita, e la figlia Graziella. A Torino rimanevano gli affetti familiari, le amiche e gli amici di vecchia data, in Val Pellice la casa delle vacanze cui sarebbero sempre tornati. Mentre Lily Malan crebbe in una famiglia di antica tradizione valdese, Carlo Lupo, figlio di cattolici, si convertì alla fede evangelica nelle trincee della Grande Guerra. Era ventenne quando nel 1915 partì volontario nel 92o reggimento di fanteria e conobbe l’attendente Guido Pavlan, giovane di origini valdesi. Con lui si stabilì subito una profonda amicizia e Carlo Lupo scoprì l’esistenza di una vita votata alla non-violenza. L’attendente Pavlan si rifiutava di portare armi e uccidere, una condotta punita con l’arresto. Ma il superiore Lupo, inizialmente contrariato, fece con lui un patto, che vide Pavlan per i successivi due anni tenere con sé il fucile scarico. Ne nacquero letture bibliche e riflessioni spirituali, che accompagnarono Carlo Lupo lungo le ore notturne di silenzio e solitudine della convalescenza all’ospedale del campo di Mauthausen.

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Il 18 febbraio 1918 tornò dall’amata Lily, a un anno dai primi incontri sulle montagne di Sauze d’Oulx, dove lui era impegnato in un corso militare. Si sposarono nel 1919 al tempio valdese di via Vittorio Emanuele a Torino, l’anno dopo nacque Graziella. Ancora studente alla Facoltà valdese di Teologia, Carlo Lupo nutriva già il desiderio di farsi testimone evangelico, e fu con una certa ostinazione che riuscì ad ottenere il suo primo incarico da pastore prima di discutere la tesi di laurea. Intanto le importanti amicizie coltivate negli anni di studio, quella con Francesco Lo Bue, futuro professore del Collegio Valdese e Giovanni Miegge, fondatore nel 1930 di Gioventù cristiana, iniziava a germinare un nuovo capitolo nella fede dei giovani valdesi, di una fede non solo intimistica ma politica, vissuta e incarnata nel rigore morale e nei valori di giustizia sociale. Naturale fu il legame con il Movimento di Giustizia e Libertà dei fratelli Rosselli e di Piero Gobetti, e l’entrata nella Resistenza sotto il vessillo del Partito d’Azione. Nelle orazioni e nei dialoghi con i fedeli Carlo Lupo espresse con forza il dovere di militanza attiva contro i falsi miti della gloria nazionale, della conquista e della supremazia razziale, insieme all’urgenza di un rinnovamento civile e morale dove ciascuno era chiamato alle proprie responsabilità.
I primi anni di cura pastorale nella comunità comasca coincisero con l’entrata dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, e Casa Lupo divenne sempre più luogo politico e di aiuto solidale. Frequenti erano le discussioni con gli amici intenti a riorganizzare l’opposizione antifascista a Como, come Pier Amato Perretta, che aveva appena fondato la Lega insurrezionale Italia Libera, evoluta poi nel Comitato di Liberazione Nazionale locale, ed Ezio Chichiarelli, professore di filosofia di idee liberalsocialiste, collaboratore della Nuova rivista storica vicina al nascente Partito d’Azione. Arrivarono anche gli amici Mario Alberto e Guido Rollier, e il padre Eric, nucleo dell’antifascismo valdese collegato al partito azionista. Nel 1940 da Torre Pellice si trasferì nell’abitazione di via Grossi il valdese Silvio Baridon in qualità di assistente del pastore, almeno fino all’impegno nella Resistenza delle valli valdesi. Dopo l’armistizio, il 12 settembre 1943 le forze occupanti naziste entrarono nella città di Como, presto coadiuvate da polizia e prefetti fascisti della neonata Repubblica di Salò impegnati in controlli sempre più stringenti su oppositori politici ed ebrei. Carlo Lupo, da tempo in contatto con la comunità ebraica, scelse la Resistenza civile. Nascose molti clandestini, ebrei e perseguitati politici, anche solo temporaneamente, in attesa di un documento falso o del contatto giusto per espatriare in Svizzera. Lily Malan trasformò l’abituale assetto domestico in spazi dormitorio che mutavano destinazione a seconda del numero di ospiti e del rischio contingente. Alcuni si rifugiavano nella stanza del seminterrato, accessibile da una botola, dotata di un’uscita. Casa Lupo era dunque parte della rete di assistenza diffusa nella città di Como coordinata dall’amica Ginevra Bedetti Masciadri che organizzava spostamenti ed espatri dal confine italo-svizzero, oltre a mettere in contatto i giovani volontari con le formazioni di Giustizia e Libertà dislocate nelle valli lariane.
Di ritorno dalla Resistenza in Val Pellice, il partigiano e pastore valdese Silvio Baridon, nel luglio del 1944 divenne comandante delle formazioni GL lariane, poi inquadrate nella XVI Divisione di Giustizia e Libertà. Pur condividendone gli intenti, Carlo Lupo insisteva nella pratica della non-violenza e dell’obiezione di coscienza, ingaggiando confronti piuttosto accesi con l’ex assistente, ormai lontano dalla missione evangelica. Così le inevitabili contraddizioni della guerra entravano nella sua casa, ora rifugio di perseguitati, poi tipografia di materiale clandestino, oppure ritrovo del comando partigiano. Lily Malan accoglieva tutte le trasformazioni con prontezza e approccio pratico, accettò pertanto la richiesta di Baridon e nascose le armi dei partigiani all’interno di innocui bauli, la cui funzione al pastore rimase ignota.
A poche settimane dalla Liberazione l’arresto del comandante delle formazioni GL svelò alle forze fasciste l’identità resistenziale di Casa Lupo. La prigionia del pastore valdese non durò a lungo, venne interrogato, ma se la cavò con l’abilità oratoria, anche se privato della folta chioma leonina. Fino al 25 aprile Lily Malan, accampata fuori dal carcere, non gli aveva fatto mancare niente.

Silvia Maresca

Localizzazione

Località: Como
Indirizzo: via Tommaso Grossi, 17
Comune: Como
Provincia: Como (CO)
Regione: Lombardia
Coordinate geografiche: Latitudine 45.80958 – Longitudine 9.09095

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Tag:

FONTI

Bibliografia
R. Cairoli, Nessuno mi ha fermata. Antifascismo e Resistenza nell’esperienza delle donne del Comasco, 1922-1945, Como, NodoLibri, 2005

Carlo Lupo : pastore, poeta, uomo di pace, a cura di A. Köhn, Torino, Claudiana, 2011

 

 

 

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ALTRE INFORMAZIONI

Data evento: Resistenza

Cognome Nome: Lupo Carlo; Malan Lily; Lupo Graziella

Formazioni d’appartenenza: la famiglia Lupo collaborò con il Comitato di Liberazione Nazionale di Como, il Partito d’Azione e le brigate partigiane di Giustizia e Libertà

Data opera: non determinabile

Autore: non conosciuto

Note: si tratta di un edificio privato, non accessibile. Ad oggi non si segnala alcuna targa commemorativa

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VILLA LA RUFOLA A SORRENTO

VILLA LA RUFOLA A SORRENTO

VILLA LA RUFOLA A SORRENTO

© peppemarescatuttoattaccato.blogspot –  Questa immagine è protetta da copyright

Non lontano dalle scogliere di Capo di Sorrento, innestata nella vegetazione antica che si rinnova, appare una grande casa, bianca dalle linee neoclassiche, conosciuta come Villa La Rufola. Si intravede appena dalla via, occultata dalle fronde di pini marittimi e fitto fogliame, in fondo ad un lungo viale. La targa apposta accanto al cancello d’entrata ricorda un frammento di vita tutta novecentesca: “In questa casa che fu della famiglia Benzoni / nella sua ospitalità ed affetto visse e morì Gaetano Salvemini, uomo saggio e meridionalista appassionato / esempio di cultura il cui ’insegnamento di libertà vive nel tempo e nelle generazioni”.
Giuliana Benzoni, appena ventiquattrenne, entrò per la prima volta nella dimora sorrentina mentre si apriva un nuovo capitolo di vita. La madre Teresa, figlia del ministro per le politiche coloniali Ferdinando Martini, aveva appena acquistato la villa. Era il 1919. Giuliana faceva parte dell’Associazione per il Mezzogiorno, intenta ad occuparsi di scuola e alfabetizzazione dove c’era solo sopravvivenza, nelle retrovie nascoste di un’unità d’Italia lontana e incomprensibile. La sua era una famiglia di origini nobili, aperta a idee politiche liberali e progressiste. Aveva conosciuto Gaetano Salvemini nell’adolescenza fiorentina, mentre lui scriveva per l’Unità e La voce, già in polemica con il giolittismo e quelle gerarchie conservatrici colpevoli di cecità, immuni al mutamento sociale in corso. Fu un incontro decisivo per Giuliana, che maturava una passione politica fatta di azioni concrete. Con l’affacciarsi del primo conflitto mondiale Giuliana raggiunse a Roma nonno Ferdinando mentre ordiva da ministro interventista accordi con gli stati dell’Intesa. Per lui fu informatrice e portaordini, girando tra i palazzi romani delle ambasciate francesi e inglesi dove apprese la fine arte diplomatica delle trame politiche, di cospirazioni e accordi segreti. Intuì e affinò presto la capacità di accordare mondi lontani, facendo incontrare l’interventismo pericolosamente nazionalista con quello più democratico salveminiano. Una sera improbabile Giuliana capitò ad una festa di Giuseppe “Gegé” Primoli e lì conobbe il primo amore, Milan Štefánic. Di origini ceche, astronomo e colonnello dell’esercito francese, coltivava con i filosofi Tomáš Garrigue Masaryk e Edvard Beneš il sogno dello stato cecolovacco. Lo vide poche volte, nei radi ritorni romani, fino al gennaio 1919. Il 19 maggio precipitò con un aereo italiano mentre sorvolava i cieli di Slovacchia.

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Giuliana era a Bratislava al funerale di stato di Milan. Poi trascorse lunghi periodi in terra straniera, nelle missioni diplomatiche del fratello Giorgio o dagli amici cecoslovacchi, con qualche ritorno in Italia, dove la dittatura fascista comprimeva le libertà personali e politiche, fino al totale scioglimento del dissenso. Spesso fu a Praga, accolta dal mentore e padre putativo Masaryk, ora presidente della repubblica cecoslovacca. Lo ospitò d’estate, nei profumi di mare e fiori d’arancio dei giardini de La Rufola, insieme alla figlia Alice e all’amico e ministro fedele Beneš. La cortina nobile e autorevole che circondava Villa La Rufola ne fece rifugio sicuro per molti amici antifascisti, un luogo protetto che permetteva a dissidenti e liberi pensatori di rimanere in contatto, ravvivando idee e relazioni ovunque proibite. Tra i ricordi di Giuliana c’è l’arrivo dell’amico Gaetano Salvemini scarcerato dalle Murate di Firenze nel luglio 1924, in partenza per Parigi dove con Carlo e Nello Rosselli avrebbe fondato il movimento di Giustizia e Libertà. Alcune furono presenze costanti, come quella di Umberto Morra di Lavriano, amico di Piero Gobetti e collaboratore alla rivista La Rivoluzione Liberale. E poi Giorgio Amendola, che poté incontrare il meridionalista Giustino Fortunato, amico del padre Giovanni morto dopo gli attacchi squadristi. Da Milano giunse a Villa La Rufola anche Raffaele Mattioli, allora direttore della Comit, la Banca commerciale italiana, che portava notizie sull’organizzazione antifascista costiuita nell’Ufficio studi da azionisti e liberali. Con alcuni di loro Giuliana Benzoni condivise la clandestinità della Resistenza romana, in un passaggio repentino dall’antifascismo privilegiato dei giardini protetti al caos della Roma occupata. Non fece parte di alcun partito, e grazie alle sue conoscenze ebbe ruoli di intermediaria. Fu di prezioso aiuto nelle operazioni di raccordo tra militari e politici, come accadde con il comunista Giorgio Amendola e il generale Giuseppe Cordero di Montezemolo, in un gioco di vasi comunicanti e vie poco esplorate. Chiese e ottenne denaro da diversi finanziatori, soprattutto da Mattioli, per supportare i militari sbandati. A palazzo Taverna, dove nel 1934 avvenne il primo di tanti incontri con la “ribelle” di casa Savoia Maria Josè, trovò sede la rinata Assistenza per il Mezzogiorno. Qui Giuliana prendeva appuntamenti, compilava liste di prigionieri da ricercare, stampava documenti clandestini e tessere annonarie.
Dopo la Liberazione partì da Roma e con mezzi di fortuna riuscì infine a raggiungere Sorrento e Villa La Rufola. In mezzo paesaggi irriconoscibili e un clima spettrale. Vide casupole di campagna e città semiabbandonate, brulicanti di nuove forme di sopravvivenza, e Napoli attraversata da reduci e alleati, piccoli e grandi soprusi, mentre si apprestava al difficile quanto agognato tempo di rinascita. Dopo la guerra, dopo il lungo esilio e gli impegni accademici, Gaetano Salvemini divenne ospite e abitante de La Rufola, non più approdo incantato in un mondo di macerie, ma dimora famigliare, con l’affetto dell’amica Giuliana sotto il pergolato di vite.

Silvia Maresca

Localizzazione

Località: Capo di Sorrento
Indirizzo: non determinabile. Indicazione: Traversa Punta Capo, incrocio con Calata Punta Capo. Riferimento su google maps per coordinate
Comune: Sorrento
Provincia: Napoli (NA)
Regione: Campania
Coordinate geografiche: Latitudine 40.629918 – Longitudine 14.354489

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FONTI

Bibliografia
G. Benzoni, La vita ribelle: memorie di un’aristocratica italiana fra belle époque e repubblica raccolte da Viva Tedesco, Bologna, Il Mulino, 1985

Sitografia
M. Grasso, Il mio incontro con Salvemini: intervista a Giuliana Gargiulo, articolo pubblicato nel sito
www.istitutosalvemini.it consultato il 9/9/2023

G. Pecora, Un ricordo di Gaetano Salvemini (Molfetta, 8 novembre 1873 – Sorrento, 6 settembre 1957), articolo pubblicato sul periodico online www.pensalibero.it consultato il 9/9/2023

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ALTRE INFORMAZIONI

Data evento: Resistenza

Cognome Nome: Benzoni Giuliana; Salvemini Gaetano

Formazioni d’appartenenza: 

Data opera: non determinabile

Autore: non conosciuto

Note: si tratta di un edificio privato, non accessibile. Sul muro di cinta, a destra dell’entrata, è affissa una targa 

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VILLA LA RUFOLA A SORRENTO

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LAPIDE IN MEMORIA DI CIPRIANO SCARFÒ A TAURIANOVA

LAPIDE IN MEMORIA DI CIPRIANO SCARFÒ A TAURIANOVA

LAPIDE IN MEMORIA DI CIPRIANO SCARFÒ A TAURIANOVA

© Istituto “Ugo Arcuri” di Civitanova – Questa immagine è protetta da copyright

Il 25 agosto 1943, a Taurianova, Cipriano Scarfò lavorava nella sua armeria, in piazza del Duomo. Fu raggiunto da una pattuglia di soldati nazisti, catturato, e portato via. Una lapide dedicata alla sua memoria, oggi esposta sulla palazzina prospicente piazza Concordia, ne ricorda a tutti l’ingiusto epilogo: “In questa città fu fucilato, per rappresaglia nazista, il libertario Cipriano Scarfò. 25-8-1943 25-8-2011”.
Nacque il 24 marzo 1889 da Caterina Pizzuto e Raffaele Scarfò, lei cucitrice, lui titolare della sartoria di Taurianova. Presto Cipriano imparò a costruire armi e fucili da caccia, divenne abile e ne fece la sua professione, conquistandosi una notevole clientela. Sposò Caterina Tripodi, ed ebbero sei figli. La nuova famiglia rimase e crebbe a Taurianova, piccolo centro della Piana di Gioia Tauro ricca di coltivi e uliveti, terre lavorate dai braccianti per conto di alcuni possidenti come il potente agronomo Arturo Zerbi, dal 1923 finanziatore della Federazione fascista locale e di Reggio Calabria. Il fascismo territoriale non si espresse solo nelle istituzioni pubbliche, ma ebbe particolare presa anche nei ricchi potentati locali, di solito personificati da latifondisti, congelando di fatto gerarchie sociali già consolidate, impedendone l’evoluzione. Eppure il dissenso trovò il modo di esprimersi, spesso di nascosto, clandestino, talvolta emerso con le ovvie conseguenze. 

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Era una piccola comunità, semplice da conoscere e di cui controllare opinioni e relazioni umane. I pochi oppositori vennero quindi incarcerati o mandati al confino.

Cipriano Scarfò è un nome che poteva risuonare come e più di altri, forse per aver mal celato alcune amicizie, come quella con Filippo Zucco, che all’indomani della destituzione del governo fascista del 25 luglio, insieme ad altri artigiani e piccoli commercianti di Taurianova, decise la ricostituzione della sezione taurianese del Partito Socialista. Oppure per la sua nota insofferenza alla guerra, espressa ben prima che divenisse realtà quotidiana. Nei locali dell’Unione contadini di Taurianova, dove si ascoltavano le notizie via radio, una sera entrò anche Scarfò, e quando il gerarca locale pretese da tutti l’alzata in piedi, il segno devozionale alle imprese belliche fasciste, lui rimase seduto, si rifiutò.
Dopo il 25 luglio, con la destituzione di Mussolini e la nomina di Badoglio a capo del governo nazionale, a due settimane dallo sbarco alleato in Sicilia, le istituzioni fasciste, dalle prefetture al podestà, rimasero al loro posto con il compito di mantenere l’ordine pubblico. Anche a Taurianova il mandato governativo si tradusse in azioni di polizia e direttive prefettizie contro ogni forma di propaganda antifascista, perseguendo e punendo le prime manifestazioni e riunioni politiche. Inoltre, con l’intensificarsi dei bombardamenti alleati su Reggio Calabria, Taurianova fu scelta come sede della Federazione fascista reggina, rendendo ancora più difficile l’organizzazione di una resistenza politica.
Gli attacchi dell’aviazione anglo-americana interessarono i territori calabresi a partire dal gennaio 1943. Quando furono colpite Gioia Tauro e la vicina Cittanova, Cipriano Scarfò e la sua famiglia, come tanti, abbandonarono la loro casa di Taurianova per trovare rifugio fuori città. Andarono in località Contrada Chiusa, zona di campagna vicino a Taurianova, dove la famiglia Zerbi, tra i clienti più importanti dell’armeria, possedeva una modesta casupola. Intanto Scarfò teneva sempre aperta la sua officina in piazza Duomo. Ci andava a piedi, percorrendo nel mezzo di antichi uliveti una stradina che passava per la vicina Contrada Micigallo, anch’essa di proprietà Zerbi, che per un tratto costeggiava l’accampamento della 29a Divisione Panzer Granadier. La recente disfatta siciliana e l’imminenza dello sbarco alleato sulle coste calabresi provocarono notevole tensione nelle milizie tedesche, e un conseguente aumento del rischio di rappresaglie, ma rappresentarono anche sentimenti di speranza e impaziente trepidazione di chi intravedeva la liberazione al nazifascismo.
Non è stata mai accertata la responsabilità di aver tagliato i fili del telegrafo del campo tedesco, ma di questo atto di sabotaggio fu accusato Cipriano Scarfò. Per questo, in una manciata di ore del 25 agosto 1943, Cipriano Scarfò, su probabile ordine del comandante Walter Fries, sarebbe stato arrestato, imputato in un processo lampo, condannato, legato al tronco di un ulivo, e fucilato.

Silvia Maresca

Localizzazione

Località: Taurianova
Indirizzo: via Roma, 82
Comune: Taurianova
Provincia: Reggio Calabria (RC)
Regione: Calabria
Coordinate geografiche: Latitudine 38.35537 – Longitudine: 16.01647

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Tag:

FONTI

Bibliografia

R. Lentini, La resistenza negata. Cipriano Scarfò e la liberazione in Calabria, in «Sud contemporaneo», anno 6, numero 1-2 (dicembre 2005).

Sitografia

Istituto “Ugo Arcuri” per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea in provincia di Reggio Calabria, La Resistenza reggina e la fucilazione di Cipriano Scarfò, articolo pubblicato nel sito www.reteparri.it consultato il 24/8/2023

F. Gori, Micigallo Taurianova 25-8-1943 (Reggio di Calabria – Calabria), scheda monografica pubblicata sul portale www.straginazifasciste.it consultato il 24/8/2023

G. Masi, L’estate del ‘43 in Calabria tra storia e memoria, in «Giornale di storia contemporanea», n. 1-2, 2013, pp. 85-117, articolo pubblicato sul sito www.icsaicstoria.it consultato il 24/8/2023

 

 

 

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ALTRE INFORMAZIONI

Data evento: 25/8/1945

Cognome / Nome: Scarfò Cipriano

Formazioni d’appartenenza: autonomo

Data opera: non determinabile. Sappiamo che fu inaugurata il 25/8/2011

Autore/i: non conosciuto

Note: opera accessibile

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LAPIDE COMMEMORATIVA DI GIANNANTONIO MANCI A TRENTO

LAPIDE COMMEMORATIVA DI GIANNANTONIO MANCI A TRENTO

LAPIDE COMMEMORATIVA DI GIANNANTONIO MANCI A TRENTO

© Redazione – Questa immagine è protetta da copyright

Nella città di Trento, al numero 12 della Galleria dei partigiani, si trova la lapide in ricordo di Giannantonio Manci. Si legge:
“SPQT / Nella tradizione avita / di una libera Italia / Giannantonio Manci / ribelle a dittature / sfidò l’invasore / suggellando con la morte / la fedeltà ai compagni / A ricordo del sacrificio / onore della Resistenza / Il municipio di Trento / 6 luglio 1954”.
Manci era a capo della sezione trentina del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) quando nella notte tra il 27 e il 28 giugno 1944 fu arrestato dalle SS. Un delatore tradì lui e altri compagni di lotta dopo nove mesi di clandestinità, passati in una terra su cui insisteva il dominio diretto del Reich. Il 18 settembre 1943, a dieci giorni dall’armistizio italiano con le forze alleate, le province di Trento, Bolzano e Belluno furono annesse alla Germania nazista nella Operationszone Alpenvorland, di fatto un controllo militare da parte delle forze naziste coadiuvate nelle istituzioni locali dai fascisti della neonata Repubblica sociale.

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La lotta clandestina contro occupanti tedeschi e vecchi nemici politici si innestava nella storia delle terre irredente, dalle guerre d’indipendenza ottocentesche arrivando al primo conflitto mondiale, dove la famiglia dei conti Manci si era schierata contro gli austriaci, nel solco del patriottismo democratico di stampo mazziniano.
Vedeva Giannantonio Manci la Patria come la via per far vivere e difendere i valori di libertà e giustizia sociale, quei principi su cui incardinare l’ordine morale e civile della collettività. Come suo padre, che fu eletto due volte sindaco di Trento ma a cui venne opposto il veto imperiale, come lo zio Filippo nell’esercito dei mille di Garibaldi, anche lui non si risparmiò, rispondendo con l’azione agli eventi del suo tempo.
Durante la Grande Guerra, dopo la disfatta italiana di Caporetto – aveva ancora sedici anni – si arruolò, diventando il più giovane ufficiale del battaglione alpini della Val Brenta. Poi insieme a Gigino Battisti, figlio del patriota risorgimentale Cesare Battisti, si unì all’impresa di Fiume nelle legioni di Gabriele D’Annunzio. Militante nel Partito Repubblicano, in antitesi con l’avanzata del regime fascista in tutti i suoi aspetti, etici, civili, politici, fu nel 1924 tra i fondatori del movimento “Italia Libera”, dove si radunarono quegli ex combattenti che criticavano le posizioni filofasciste dell’ANC (Associazione nazionale combattenti). Si unì presto al movimento di Giustizia e libertà, iniziando così a stabilire contatti con l’antifascismo milanese d’ispirazione repubblicana, socialista e liberale, in particolare a Milano, dove gli spostamenti da Trento alla città meneghina erano giustificati da ragioni professionali. Dopo la promulgazione delle leggi eccezionali, tra il 1926 e il ‘27 Giannantonio Manci aiutò molti sodali e oppositori politici nelle fughe d’oltralpe, scampando più volte all’arresto, ma attenzionato dalla Commissione provinciale per il confino di Trento.
Con l’entrata in guerra dell’Italia e la previsione del precipitare degli eventi, Giannantonio Manci iniziò a organizzare i primi nuclei di gruppi partigiani trentini. Rinsaldò i legami con la rete antifascista milanese che nel 1942 si sarebbe unita nel Partito d’Azione e con uomini come Oreste Ferrari, trentino, impiegato nell’Ufficio studi della Banca commerciale di Mattioli, luogo strategico per la futura lotta clandestina.
Manci moltiplicò gli sforzi nell’operazione politica di unire tutte le forze democratiche trentine, per fare fronte comune tra le anime socialiste e repubblicane nel CLN locale, in una visione ampia e programmatica che andava oltre la guerra e che stilò in quello che divenne il suo testamento politico: si parla nel Manifesto per i trentini di Patria e Umanità, dell’istituzione di una Repubblica democratica e del Federalismo europeo, di socializzazione della produzione e libertà, dove ciascun elemento è indispensabile, e non può vivere senza l’altro. L’azione febbrile di quel periodo andava dalla politica organizzativa e alle questioni militari, un impegno che lo distolse quasi completamente dal lavoro e dalla sua famiglia, la moglie Giulia Sardagna e le figlie Giulia, Annamaria e Giovanna.
La notte del 27 giugno 1944 la Gestapo fece numerosi arresti, e tra i nomi fatti dal delatore vi era quello del capo del CLN trentino. Manci venne portato via dalla casa di Mesiano, insieme al nipote Massimiliano Ierace, nella villa occupata dalla Gestapo a Trento, per poi essere trasferito a Bolzano, nella sede dell’ex comando del corpo d’armata. Lì rivide il compagno socialista Giuseppe Ferrandi, cui donò le poche parole, lasciate al mondo: “Ora e per sempre”, e “Internazionale futura umanità”. Alla prima notte di interrogatori, serrati e inconcludenti, seguirono sette giorni di sevizie e torture, che non valsero la pronuncia di un solo nome dei compagni di lotta. Il 6 luglio 1944 Giannantonio Manci avrebbe subito altre torture, non nei sotterranei, ma in un ufficio del terzo piano. Attendeva seduto con l’interprete, che si assentò per pochi secondi, che una volta tornato vide l’ex prigioniero oltre la finestra della stanza, lasciarsi cadere.
I suoi cari, gli amici, le persone che aveva salvato ne avrebbero lasciato memoria, in cerimonie e testimonianze. Il futuro per cui aveva vissuto, la Repubblica italiana, riconobbe uno dei suoi padri. La medaglia d’oro al valor militare a memoria della sua missione.

Silvia Maresca

Localizzazione

Località: Trento
Indirizzo: Galleria dei partigiani, 12
Comune: Trento
Provincia: Trento (TN)
Regione: Trentino Alto Adige
Coordinate geografiche: Latitudine 46.06962 – Longitudine 11.12391

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FONTI

Bibliografia
Giannantonio Manci 1944-1994, a cura di Vincenzo Calì, Trento, Temi, 1994

 

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ALTRE INFORMAZIONI

Data evento: 6/7/1944

Cognome Nome: Manci Giannantonio

Formazioni d’appartenenza: Partito Repubblicano Italiano, Movimento socialista trentino, CLN del Trentino, Brigata Cesare Battisti

Data opera: non conosciuta. Data celebrativa 6/7/1954 

Autore: non conosciuto. Opera commissionata dal Comune di Trento

contatti

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