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LA RESISTENZA DEI LAVORATORI

Quando pensiamo ai luoghi della Resistenza, probabilmente vengono in mente più i sentieri di montagna o le barricate lungo le strade nei giorni dell’insurrezione più delle fabbriche. 

Queste ultime furono però un luogo chiave e i lavoratori – operai e non solo – furono indubbiamente fondamentali per il suo successo. 

In primo luogo, bisogna considerare che la guerra richiedeva molto lavoro per andare avanti: all’esercito servivano uniformi, mezzi, armi, munizioni, etc. Proprio per questo, agli inizi della guerra gran parte delle industrie italiane erano state riconvertite: in alcuni casi le industrie continuarono a produrre le stesse cose ma per l’esercito – da aerei civili ad aerei da guerra; in altri i cambiamenti erano enormi, ad esempio aziende che fabbricavano sveglie dovettero mettersi a produrre meccanismi per le bombe.

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Ad essere coinvolte non erano soltanto le fabbriche: i soldati dovevano pur mangiare, quindi anche il lavoro dei contadini e soprattutto dei braccianti era fondamentale per la guerra. Senza contare che il tutto andava poi spostato, e quindi strade e ferrovie dovevano essere tenute in ordine e serviva anche chi guidasse treni e furgoni.

Il fatto che il lavoro fosse essenziale per il successo della guerra non era privo di conseguenze: il fascismo aveva fin dall’inizio come obiettivo quello di reprimere il movimento dei lavoratori e aveva reso illegali forme di protesta come lo sciopero, ma la necessità di forniture per l’esercito fu usata come argomento per aumentare i controlli e la repressione nelle fabbriche, nelle campagne e negli altri luoghi di lavoro.

Contemporaneamente però, gli uomini abili che avevano l’età per combattere erano stati richiamati per combattere. Anche per questo, molte donne lavoravano a loro volta nonostante il fascismo avesse incoraggiato le donne a occuparsi esclusivamente della famiglia. Nonostante il contributo femminile i lavoratori, soprattutto per i ruoli che richiedevano molta esperienza, scarseggiavano al punto che anche coloro che potevano essere considerati politicamente pericolosi, ossia gli antifascisti,  potevano continuare a lavorare  nelle fabbriche.

Allo stesso tempo però, la guerra (soprattutto negli ultimi anni) aveva peggiorato di molto le condizioni dei lavoratori, soprattutto nelle fabbriche e più in generale nelle città: il cibo che era possibile avere legalmente con le tessere annonarie (che definivano le razioni assegnate ad ogni famiglia dal regime) era troppo poco e quello disponibile al mercato nero molto costoso. Nei mesi invernali, si aggiungevano anche la mancanza e l’alto costo del carbone, che all’epoca si usava per alimentare le stufe che riscaldavano le case. Anche arrivare al lavoro non era facile, per via dei bombardamenti che avevano danneggiato le strade e costretto molte persone ad evacuare lontano dalle loro case. Mancava anche la benzina, quindi molti si muovevano in bicicletta, ma sostituire le gomme consumate della bici diventava un problema perchè perfino quelle erano quasi introvabili, perchè la produzione di pneumatici era diretta quasi esclusivamente all’esercito. 

É in questa situazione difficilissima che, prima ancora dell’inizio “ufficiale” della Resistenza, esplodono gli scioperi del marzo 1943. Nonostante tutte le difficoltà, gli scioperi non si erano mai davvero fermati in epoca fascista, e le difficili condizioni negli anni della guerra li avevano fatti aumentare: nel 1942 la media era stata di 2 scioperi al mese. Si trattava di proteste che avvenivano in singoli luoghi di lavoro e generalmente si interrompevano quando arrivavano la polizia o le milizie fasciste. Le richieste degli scioperanti riguardavano le condizioni di lavoro e la paga, più che questioni più politiche. 

Nel 1943, la frequenza  degli scioperi stava  aumentando, e gli operai cominciavano a non essere disposti a ritirarsi al primo segno di reazione. In molte fabbriche, erano le lavoratrici a spegnere le macchine e mettersi a fare da barriera per impedire di riaccenderle, per proteggere i loro colleghi uomini dalle reazioni violente dei fascisti. 

A Torino, una delle più grandi città industriali italiane, i tempi sembravano maturi per l’organizzazione di uno sciopero che il regime non avrebbe potuto nascondere, partendo da una delle fabbriche più note del paese: la FIAT di Mirafiori, che si sarebbe fermata alle 10 del 5 marzo 1943. Da lì, lo sciopero si sarebbe via via esteso nelle ore e nei giorni successivi alle altre fabbriche torinesi, poi al resto del Piemonte e successivamente a Milano e alla Lombardia, arrivando a coinvolgere secondo le stime 200mila lavoratori in aziende di varie dimensioni. Diverse fabbriche rimasero occupate per giorni, nonostante i tentativi di persuasione dei dirigenti e delle autorità, che arrivarono anche a far incontrare agli operai i reduci di guerra per convincerli che scioperando danneggiavano i soldati al fronte. Il regime fu costretto a cedere il 3 aprile, decidendo l’aumento degli stipendi degli operai, e gli scioperi si fermarono entro la prima metà di aprile. 

Se non si trattava del primo sciopero, era sicuramente un cambio di passo: non solo l’interruzione del lavoro era stata coordinata tra più fabbriche, grazie all’impegno della rete clandestina degli antifascisti comunisti e socialisti, ma oltre alle richieste legate alle condizioni degli operai delle singole fabbriche, gli scioperanti avevano uno slogan comune, riportato sui primi volantini fatti circolare: “per il pane la pace e la libertà”. Si trattava insomma di un’esplicita protesta contro il regime, anche se per convincere gli operai gli organizzatori si concentrarono soprattutto sulle questioni economiche e le conseguenze della guerra.

Gli scioperi del marzo 1943  furono anche per molti operai la dimostrazione che il regime non era invincibile, e ispirarono molti di loro  ad aderire alla Resistenza, senza essere distolti nemmeno dagli arresti e dalla repressione che seguirono. 

Nell’estate successiva, la caduta del fascismo aprì una breve fase in cui i sindacati tornarono legali e i lavoratori potevano eleggere i propri rappresentanti per trattare con i datori di lavoro. Anche dopo il ripristino del regime, questi primi rappresentanti sarebbero stati un punto di riferimento per chi ne condivideva le idee, almeno fino a quando fossero rimasti in fabbrica. Contemporaneamente infatti aveva cominciato ad operare anche la resistenza, e con essa le reti clandestine compresa quella del sindacato, che era stato nuovamente proclamato illegale. In alcune aziende, vi fu anche il tentativo di rieleggere le Commissioni Interne, che riunivano i rappresentanti dei lavoratori, proponendo soltanto le liste fasciste, ma questi tentativi spesso divennero un’occasione per gli operai per manifestare la loro opposizione, come nel caso della Arrigoni di Cesena. 

Nonostante con l’occupazione tedesca i controlli si fossero inaspriti, i “comitati d’agitazione” interni alle fabbriche ricominciarono ad organizzare nuovi scioperi.

In alcune fabbriche i primi scioperi si ebbero già a novembre 1943, e di nuovo a gennaio 1944, ma presto divenne chiaro anche ai fascisti che l’anniversario degli scioperi dell’anno precedente, a partire dal 1 marzo 1944, sarebbe stato decisivo. Nonostante vari tentativi di prevenire lo sciopero (nel torinese addirittura mettendo in ferie intere fabbriche), i lavoratori tornarono a scioperare in massa in quella data.  

In questo caso si sarebbe trattato di un vero e proprio sciopero generale, a cui si unirono non solo gli operai ma anche contadini, braccianti, ferrovieri, facchini, tipografi e addirittura gli studenti. 

Gli scioperi dei tramvieri bloccarono diverse città dalla Toscana alla Lombardia , aiutati anche dai partigiani dei GAP che sabotarono le rotaie e – in particolare a Milano – anche dal fatto che gli scioperanti avevano nascosto le manovelle usate per guidare i tram per impedire ai fascisti di condurli al loro posto. 

Gli scioperi del marzo 1944 ebbero quindi grandissima partecipazione, arrivando a fermare letteralmente le città, ma la risposta fu molto diversa dal 1943: in molti luoghi i padroni delle fabbriche rifiutarono di trattare con le delegazioni degli operai e delle operaie (che spesso univano alle richieste dei colleghi maschi la rivendicazione di stipendi uguali tra uomini e donne), e decisero di chiudere le fabbriche per la durata dello sciopero, lasciando senza stipendio (e senza mensa, che all’epoca data la mancanza di cibo era un gravissimo problema) i loro dipendenti.  

La reazione del regime e degli occupanti tedeschi fu violentissima anche dopo la fine degli scioperi: centinaia di arresti e deportazioni verso i campi di concentramento in Germania. Alcuni degli operai che si erano esposti durante gli scioperi dell’anno precedente avevano già lasciato il loro lavoro per unirsi alla Resistenza a tempo pieno, e anche dopo questi nuovi scioperi molti degli operai più visibili ed esposti, sapendo di essere ricercati, presero la stessa strada, vivendo in clandestinità in città o unendosi ai partigiani in montagna. 

Gli arresti e le fughe degli organizzatori non misero però fine agli scioperi: altri operai li sostituirono e continuarono periodicamente ad organizzare proteste, nelle grandi aziende e anche fuori, anche se meno estese di quelle del marzo-aprile: nelle campagne bolognesi uno degli scioperi più significativi si ebbe a giugno 1944, mentre la Pirelli di Milano scioperò in massa nel novembre 1944, anche in ricordo di due operai uccisi nella strage di Piazzale Loreto. 

Ad ogni nuovo sciopero seguivano ancora arresti, ma sempre nuovi operai e operaie  si univano alla Resistenza, anche in reazione alla repressione del regime.  

La reazione colpì anche le lavoratrici, che prima dell’occupazione erano leggermente più protette dagli aspetti più violenti della repressione, ma dal 1944 furono arrestate e deportate quanto i colleghi uomini. 

Gli scioperi, in particolare quelli del marzo 1943 e 1944, furono tra gli episodi più visibili della resistenza da parte dei lavoratori, anche perché rappresentarono un evento che la propaganda fascista non riuscì a nascondere. 

La partecipazione dei lavoratori alla Resistenza però non si limitava a questi episodi, che spesso univano alla contrarietà al regime anche la rivendicazione di migliori stipendi e condizioni di vita per i lavoratori.

La Resistenza – in fabbrica come altrove – si faceva quindi in molti altri modi. 

In primo luogo, i prodotti delle fabbriche stesse erano spesso utili e necessari non solo all’esercito di Salò ma anche ai partigiani. Quindi munizioni, armi, ma anche vestiti, medicine, cibo, prenumatici o altro venivano quindi a volte sottratti direttamente dalle fabbriche che li producevano per farli avere ai partigiani. In alcuni casi, i dirigenti e i proprietari delle aziende erano se non esplicitamente complici, quantomeno consapevoli di quello che succedeva al loro interno e disposti a chiudere un occhio, almeno fino a quando non subivano la pressione degli occupanti. Più rari – ma non inesistenti – furono i casi in cui gli industriali stessi parteciparono attivamente alla Resistenza, anche mettendo i propri prodotti e le proprie aziende a disposizione dei partigiani. 

Oltre che a essere un luogo dalle cui scorte si poteva attingere, le fabbriche erano un luogo dove poteva essere molto facile nascondere o passarsi materiali. Negli anni ‘40, infatti, le principali fabbriche erano luoghi anche molto grandi, che arrivavano a occupare diversi isolati, e dove lavoravano centinaia o addirittura migliaia di persone. Era quindi impossibile sorvegliare costantemente tutte le fabbriche e tutti gli operai. Proprio per questo le fabbriche erano spesso usate per nascondere materiali di ogni tipo, sfruttando il fatto che gli operai sapevano dove non sarebbero stati trovati. Le fabbriche diventavano quindi depositi di materiali da inviare ai partigiani, spesso anche provenienti da fabbriche vicine, o addirittura di armi da usare nelle azioni in città. 

Oltre a servire come deposito per i materiale da far avere ai partigiani, le fabbriche potevano essere – ed erano – anche un luogo di scambio, ottimo per passarsi o anche distribuire ai colleghi materiale di propaganda come i volantini o la stampa clandestina, o per passarsi con discrezione informazioni legate alle attività partigiane o altri messaggi da diffondere. 

Naturalmente tutto questo poteva avvenire anche fuori dalle fabbriche, e coinvolgere lavoratori di tutti i tipi: nei negozi, in strada, al mercato, nelle scuole e nelle università, addirittura negli ospedali o nelle parrocchie le persone legate alla Resistenza contribuivano a nascondere i ricercati, a procurare materiale o passare informazioni ai partigiani. Anzi, in molti casi queste tipologie di lavoratori erano meno controllati degli operai, per cui pur operando in un ambiente più piccolo delle fabbriche correvano meno rischio di essere scoperti. Gli operai infatti non potevano uscire o entrare a piacimento dal lavoro, tanto che in alcuni casi come alla Borletti di Milano, lavoratori e lavoratrici legati alla Resistenza come Carlotta Regina Thomas falsificavano i cartellini delle presenze per fornire un alibi ai colleghi impegnati in azioni partigiane durante l’orario di lavoro.

Un’altra forma di partecipazione alla Resistenza nelle fabbriche, che era già cominciata prima del 1943, erano i sabotaggi, soprattutto di quelle produzioni più direttamente legate alle esigenze dell’esercito. Questo tipo di azioni era condotto con la complicità o direttamente dagli operai legati alla Resistenza, ma sempre in modo da non far individuare i responsabili: magazzini di materiali o bruciati nottetempo o addirittura fatti saltare, macchine che venivano bloccate o rotte, produzioni difettose. Ovviamente questo tipo di sabotaggio era molto rischioso per chi lo compiva, soprattutto internamente, ma gli operai conoscendo molto bene il loro mestiere erano spesso in grado di farlo senza lasciare tracce. 

Con l’inizio dell’occupazione alcune forme di sabotaggio divennero difficili, dato che le produzioni strategicamente più significative erano sorvegliate anche militarmente. Allo stesso tempo la presenza della Resistenza partigiana assicurava maggior copertura agli operai e in alcuni casi permetteva azioni più eclatanti, soprattutto ai danni di ferrovie, strade e mezzi di trasporto, dato che erano più difficili da sorvegliare in ogni singolo tratto e interrompere i collegamenti era un modo molto efficace di danneggiare le operazioni degli occupanti. 

Con l’avvicinarsi dell’insurrezione, i sabotaggi diminuirono, soprattutto quelli dei macchinari o delle strade: tutto doveva poter tornare a funzionare nel minor tempo possibile dopo la Liberazione, e occorreva anzi impedire ai tedeschi e ai fascisti di distruggere ciò che si lasciavano alle spalle, pur cercando di ostacolarne la fuga. In alcune zone, ad esempio, i partigiani si organizzarono per barricare strade e ferrovie, in modo da impedire ai tedeschi di usarle, facendo però in modo di poterle liberare in fretta per facilitare l’avanzata degli alleati. Durante l’insurrezione delle varie città, soprattutto settentrionali, le squadre partigiane ebbero addirittura l’ordine di proteggere alcune fabbriche particolarmente importanti e sorvegliarne gli ingressi, per impedire che fossero saccheggiate e distrutte dai tedeschi e dai fascisti.

Alice Leone

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FONTI

Bibliografia

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L. Romagnoli, Relazione generale sullo sciopero delle mondine bolognesi, giugno 1944, Bologna, Camera confederale del lavoro – Archivio storico, Centro documentazione, 1981

G. De Luna, Operai e Consigli nella politica del Partito d’azione a Torino (1943-1945), in  «Mezzosecolo. Materiali di ricerca storica», 1975, n. 2, Annali 

I. Guerrini – M. Pluviano, Savona, 1° marzo 1944. Lo sciopero : “inutili sono stati tutti i passi fatti, inutile ogni ricerca” : operai e città tra resistenza, repressione, esigenze dell’economia di guerra nazionalsocialista, Acqui Terme, Impressioni Grafiche, 2021

Antifascismo e resistenza scritti sulla pietra : lapidi e cippi a Cesena e nella Valle del Savio, Cesena, Il ponte vecchio, 2024 

A. Scalpelli, Il grande contributo degli scioperi del ’44 alla Resistenza, il ricordo degli scioperi del 1944 e dell’importanza di questi anche a livello internazionale, in «Triangolo rosso», 1981, n. 2-3

B. Golo, Come ho vissuto gli scioperi del 43-44, in «Triangolo rosso», 1981, n. 2-3

A. Pampaloni, Dal diario di un protagonista, in «Triangolo rosso», 1981, n. 2-3

E. Barili, Le donne per gli scioperi: scelta ideale per la partecipazione ad una società nuova, in «Triangolo rosso», 1981, n. 2-3

Sitografia

G. Rispoli, Marzo ’44, i giorni della Breda, articolo pubblicato sul sito

www.collettiva.it consultato il 28/6/2025

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